Che ingorgo sul ponte Sceicco Khalifa. Finisco la colazione: pane francese, burro di arachidi americano, marmellata tedesca. Ad un'altitudine pari al 13° piano di questo grattacielo, mi immergo nella lettura di "Felice Sobrietà" di Pierre Rabhi. Di fronte a me migliaia di persone cercano di entrare nel capitale degli Emirati Arabi in questa Domenica mattina, inizio di una nuova settimana lavorativa. Nello stesso frangente immagino Mazin e la sua famiglia. Staranno mungendo le capre e anche loro si staranno apprestando a fare colazione: un bicchierone di latte bollito a testa, appena munto. Nessuno avrà fame prima delle 13:00. Nell'appartamento dove siamo adesso la cucina è piena di "tentazioni industriali" provenienti da tutto il Mondo. Ho appena finito la mia colazione e il mio stomaco già reclama: "Ancora, ancora!"
Siamo ad Abu Dhabi in attesa del nostro visto per l'Iran. I miei pensieri mi portano di nuovo in un piccolo villaggio omanita nella regione di Dhofar. Il 24 gennaio scorso abbiamo messo piede per la prima volta sulla terra del Sultano dell'Oman. Eppure, prima di affrontare la traversata, quante volte ci hanno detto: « Impossibile, non troverete mai una barca a vela che attraversi l'Oceano Indiano e che per di pù carichi voi e le vostre biciclette!»
Non sapevamo nulla dell'Oman. Non molto tempo fa quasi ne ignoravamo l'esistenza. Prima di arrivare in un nuovo Paese, poniamo spesso un limite alle nostre ricerche. Evitiamo di guardare immagini e di collezionare informazioni in modo da non avere aspettative, di non figurarci a priori quello che in seguito vedremo. È così che vogliamo scoprire il Mondo e l'Oman è, al nostro arrivo, nelle nostre teste, come una pagina quasi vuota. L'unica cosa che qualcuno ci ha detto è: « Visto da Google Maps, sembra non ci sia niente, a parte qualche villaggio, sembra completamente arido. Non ci sarà molto da fare in Oman»
Le nostre biciclette sono pronte. Sono cariche di tanta acqua e di tanto cibo perché non sappiamo cosa aspettarci. Appena lasciamo la città di Salalah - è dove siamo attraccati - ed i suoi grandi palmeti, pedaliamo nel bel mezzo della steppa bordata da un lato dal mare e dall'altro dalla catena montuosa del Dhofar. E ritroviamo i nostri compagni delle regioni aride: i dromedari e i cammelli.
Autisti inturbantati si fermano alla nostra altezza e ci tendono una bottiglia di acqua minerale fredda e presto mi rendo conto che non so più dove metterla e che la mia bicicletta sembra essere in sovraccarico!
Un giorno un furgone frigorifero ci si ferma davanti. Un signore molto elegante, avvolto in un'ampia tunica bianca, scende mentre ci avviciniamo. Marco già sta sognando ad occhi aperti « Saranno dei gelati stavolta?!». Ed ecco che Mazin ci porge della frutta freschissima e, mentre si appresta a ripartire, ci dice: « Abito a 3 Km da qui. Se volete, potete fare una sosta, pranzare e riposarvi prima di riprendere la strada»
I nostri muscoli, stanchi da queste ripresa a pedalare dopo quattro mesi in barca a vela, ci invogliano ad un pisolino. Apro un occhio. Sono le 16:00! Heck, è tempo di ripartire! Apro timidamente la porta. Fuori sulla terrazza c'è il mondo riunito a bere del tè. Mi vedono, è troppo tardi per tornare indietro. Mi invitano a fare una doccia e ad unirmi a loro. Un po' imbarazzato Mazin mi chiede se mi va di indossare abiti tradizionali. Quando esco dal bagno trovo Abeer, una delle sorelle, e sua madre, ad aspettarmi. In un secondo, voilà, sono perfettamente vestita per raggiungere la cerchia familiare. Gustiamo del pane dolce ancora bollente e del tè con i nonni, i genitori e i nove fratelli e sorelle di Mazin. Marco si unisce a noi. Anche lui si ritrova vestito all'omanita: dishdasha e massar ovvero la grande veste bianca ed il turbante. Ho l'impressione di viaggiare nel tempo. Ecco che ci risiamo! Queste scene sono magiche. Sono proprio questi momenti che mi spingono ancora a viaggiare.
Tiphaine