Ritmi del Tadjikistan. In bici e in auto-stop (per via della spalla fratturata) sulla Pamir Highway. Clicca qui I quindici giorni a Khorog passano in fretta tra riposo, lettura e racconti e incontri con cloviaggiatori di tutto il mondo che vanno e vengono dalla Pamir. Porto un fascicollo e seguo le raccomandazioni dei medici : non muovere il braccio sinistro. Tiphaine ormai merita una statuetta d’oro : pazientemente, prepara, serve e lava i piatti, aiuta a vestirmi e a legarmi pure i capelli ! I giorni di riposo assoluto sono terminati ed è ora di ripartire, il nostro visto tagiko sta per scadere, pollice in su e via ! Il tratto di strada che stiamo percorrendo è stato riaperto da poche settimane. Lo specchio d’acqua verde turchese che riflette il paesaggio all’inverso è interrotto da tetti di case che spuntano al suo interno. I ragazzi che ci stanno offrendo un passaggio ci mostrano il video della frana che ha causato il blocco, una delle tante essendo questa zona priva di alberi. Sembra una scena apocalittica di qualche film, tanta è la sua potenza. Date un’occhiata al video. Raggiungiamo il terminal da cui partono e arrivano i camion cinesi. Siamo nella loro direzione e visto che vengono in Tagikistan solo per esportare, se ne tornano indietro vuoti !! Di certo lo spazio per le nostre case a due ruote non mancherà, ma gli autisti dai tratti cinesi, essendo in terra straniera, a differenza di quelli locali devono rispettare le regole e non fanno salire più di un passeggero per cabina : ci separiamo, saliamo su due mezzi diversi. «Come ti chiami ?» chiedo per socializzare un po’. Il camionista annuisce e ripete « come ti chiami ?»…è chiaro che non ha capito. Ci riprovo : « Io Marco e tu ? » domando mimando e facendo chiari segni. Lui ripete quello che dico. Lascio stare, non ci sono le basi per comunicare. Invece a Tiph il camionista, sarà forse perchè in compagnia di una presenza femminile, ma è tutto arzillo. Ride, scherza : « Questo camion se ne cade a pezzi, è cinese ! » sogghigna. Battutina che detta da uno con gli occhi a mandorala è davvero il colmo ;) In realtà ci spiega che loro sono uiguri. Sebbene facciano geograficamente parte della Cina, sono un’etnia a parte di orgine islamica e turcofona. A loro i cinesi non gli stanno per niente simpatici. A sinistra ci sono della casupole e il gruppo di cinque camion con il quale stiamo viaggiando si ferma. Fuori si muore dal freddo e loro si portano dietro asciugamanino, rasoio e ciabattine. Una sorgente di acqua calda, ecco spiegato il mistero : evvai di pacche nell’acqua ! Si riparte e iniziano a giocare come se sotto al culo avessero delle biciclette : si superano, si bloccano la strada a vicenda, in parallelo si sfidano a chi va più veloce, gran polveroni e buche non buche oramai non contano più. In qualche modo devono pur ammazzare le dieci ore di guida. Il buio è calato da un pezzo e a Murghab accettiamo volentieri di dormire nella pensione dei camionisti. Sono stremato non mi reggo in piedi a differenza degli uiguri che invece, sentendosi di casa, occupano il salone, attaccano con un loro dvd e si scatenano in balli folcloristici con l’energia di chi è bello fresco e riposato. Un odore di fuliggine regna nella stanza in cui dormiamo e il mio letto porta una tavola di legno solo per metà, riempio il buco con dei vestiti. Un cavo elettrico scoperto va manualmente congiunto o spostato ad un altro per accendere e spegnere la luce e ogni volta parte una scintilla...brivido…per 3 euro a notte non possiamo di certo lamentarci. I camionisti proseguiranno diritto per Kashgar, in Cina, tramite una frontiera a noi « turisti » chiusa. Noi puntiamo a nord verso il Kirghizistan. Le strade sono vuote, intorno a noi solo montagne nude e la cittàdina di Murghab in lontananza che spunta come una cattedrale nel deserto. « Un’auto un’auto.. » grido come se avessi appena assistito ad un miracolo. Il portabagagli sopra è vuoto e dietro ci sono giusti giusti due posti liberi. L’autista ha una faccia da muso giallo e porta uno strano cappello bianco e da lunghe forme, è un kirghizo. Il respiro diventa faticoso, le cime sono innevate e avvertiamo un po’ di mal di testa, ci siamo, questo è il punto più alto del Pamir : 4664mt, è la prima volta che mi ritrovo così in alto toccando terra. Il lago di Karakul appare in tutta la sua bellezza. Colori che mutano al passare delle nuvole e montagne dai dolci rilievi contornano la superficie d’acqua, sembrano panna montata. Per noi fine della corsa, questa notte ci accamperemo qui. Montiamo la tenda in questo spettacolo della natura. Le lunghe corna, la vistosa gobba e la sua folta coda rendono questa strana mucca affascinante. Emette dei suoni simili ad una vecchia motocicletta in accelerazione : è uno yak ! Non ne avevo mai visto uno in carne ed ossa prima d’ora. Ciclisti all’orizzonte ! Sono Paul e Leiset, la coppia di australiani in nostra compagnia il giorno in cui ebbi l’incidente. Ma che bella sorpresa ! Ecco che giunge anche un’altro cicloturista, Jonathan è inglese. Ci stringiamo tutti e cinque nella tenda, sorseggiamo del buon tè caldo e sgusciamo noccioline : chiacchieriamo e facciamo gli onori di casa come se fossimo comodamente seduti in un salone. Ci godiamo gli ultimi e preziossisimi raggi di sole. Con essi calerà anche il freddo. I ragazzi ci avvisano : mettevi quello che di più caldo avete e custodite l’acqua con il sacco a pelo se non volete risvegliarvi come cubetti di ghiaccio. La temperatura potrebbe scendere di 10°C sotto lo zero, d’altronde è fine settembre e stiamo campeggiando a 4000mt d’altitudine. Ci si sveglia scricchiolanti e di buon ora. Ci mettiamo da subito in postazione, farci sfuggire potenziali passaggi significherebbe passare un’altra notte in tenda. Qui le auto sono rare e in un giorno ne passano si e no due. Tre pantaloni, calzini di lana, copriscarpe, cappotto in piuma d’oca, intimo tecnico, impermeabile, guanti, scarpe e cappelli…indossiamo quasi tutto il nostro guardaroba, questa mattina, nonostante il sole, il freddo, incalzato dal vento, è penetrante. Decliniamo a malincuore gli inviti a prendere un tè dagli abitanti del villaggio : dobbiamo sorvegliare la strada. Nel paesino di Karakul gli unici punti d’acqua sono quelli dei pozzi dislocati qua e là. Funzionano per mezzo di un sistema di pompe attivato manualmente. Da un lato una persona spinge su e giù la lunga leva e dall’altro c’è chi incanala l’acqua nelle taniche. La gente va in bagno con in mano una manciata di comode pietre lisce di fiume, si sostituiscono ai quattro veli di carta igienica a cui noi europei siamo abituati. Vari abitanti ci offrono di accompagnarci alla frontiera a suon di dollari, ma siamo convinti che la « divina provvidenza » stia lavorando ad una soluzione più adatta a noi poveri squattrinati, bisogna solo avere tempo e quello proprio non ci manca !
Marco Siamo sempre a Sagirdasht nel piccolo ospedale di montagna. Stamattina le infermiere entrano nella stanza, vogliono truccare Tiphaine e poi dicono: “c'è una festa, devi assolutamente venire con noi”. Tiphaine : dopo essere passati a prendere un tè dalle loro amiche, ci incamminiamo verso la scuola da dove arriva la musica che si propaga in mezzo alle montagne. Tutto il villaggio è riunito, alcuni sono seduti sui gradini, alcuni in giacca e cravatta dietro la tribuna, in pista i bambini danzano seguendo i ritmi tradizionali di un cantante famoso del Pamir. La mia testa bionda da europea non passa inosservata, anche se cerco di confondermi tra la folla ; ed ecco che una donna viene a salutarmi. Fin qui tutto ok. Qualche minuto più tardi inizia a ballare mentre piano piano si avvicina pericolosamente verso di me…no, no, non voglio esibirmi davanti a tutti!! E invece si, è quello che vuole….vabbè mi butto…faccio del mio meglio, è andata..gridano e mi applaudono..facendomi diventare più rossa di quello che già sono per via del sole che oggi batte forte. In breve tutto il villaggio mi conosce. Ma cosa c’è il 9 settembre? Al rientro scopro che è la festa dell’indipendenza del Tagikistan! Sono contenta di non aver rifiutato la danza, sarebbe stato uno scandalo politico! ,La struttura ospedaliera è messa male, ma noi stiamo bene qui, mangiamo, dormiamo e del buon tè caldo non manca mai. Poi basta uscire per godersi le belle giornate soleggiate e questo immenso cielo blu contornato da alte montagne rasate. Il bagno si trova fuori e anche qui è un puzzolente buco a terra nella casetta quella più lontana. Da un tubo in giardino scorre no-stop dell'acqua fresca di montagna che adempie bene al suo compito di risvegliarmi al mattino quando mi lavo la faccia. Dentro, l'acqua corrente non c'è, ma non mancano dei piccoli lussi. All'interno di uno stanzone cementato a grezzo, un grosso barile da 100lt, con su scritto “Vegetal oil U.S.A”, è collegato, per mezzo di una resistenza posizionata sul suo fondo, ai fili elettrici che escono dal muro. Le braccia muscolose delle infermiere, ogni mattina, trasportano due secchi d'acqua per volta, che riversano nel gran contenitore. L'acqua scende giù per gravità tramite un rubinetto in basso. Un catino e ti puoi fare una bella doccia calda nella speranza di non rimanerci stecchito con una scossa elettrica. A terra e nelle stanze a volte c'è la moquette, a volte un rivestimento in plastica. All'ingresso, a sinistra le immagini di personaggi che per qualche motivo sono passati alla storia e diventati eroi tagiki, a destra, l'immancabile foto del presidente. Nelle campagne è in posa in un campo di grano con una pagnotta in mano, qui è giustamente in posa circondato da infermiere. Oggi Akbar mi leva i punti e prima di andar via mi vuole far vedere una cosa. Deve ripulire la ferita di un ragazzino che ha operato di appendicite. L'adolescente solleva la maglia, sulla pancia ha un buco enorme che sta rimarginando, a confronto io non ho nulla! Poi ci mostra quella che dovrebbe essere la sala sterile, ma che per mancanza di fondi non lo è. Dentro c'è una stufa a legna (!!??) e il lettino, dotato di lacci per legare gambe e braccia del paziente (o vittima), fa piuttosto sembrare la sala una stanza delle torture. Volente o nolente le operazioni si fanno e la gente alcune volte riporta problemi post operatori a causa dei batteri contratti, altre volte, capita che muoiano, ci racconta intristito Akbar. Fuori è parcheggiata un'ambulanza della croce rosse del Lussemburgo, è stata donata l'anno scorso tramite il “Tajik Rally”, ma Akbar ci spiega che viene usata poco perchè non è 4x4, un requisito fondamentale per scalare le pseudo strade della regione. Ci mostra le foto dello scorso inverno. Le vie non vengono pulite, ci si muove solo a piedi o a cavallo, perfino l'inarrestabile fuoristrada russo (la Niva Lada) non può farci nulla e resta a riposo sotto i suoi 4mt di neve. Ormai siamo diventati amici di tutti e per quanto ci siamo affezionati a questo posto e alla sua gente è arrivata l'ora di prendere una decisione, presto dovremmo partire da qui! L'assicurazione ci chiede di fare una radiografia seria per capire definitivamente cosa ho alla spalla. Ci hanno informato che a Khorog l'ospedale è dotato di strumentazione all'avanguardia. Liberiamo la stanza dalle nostre cose, montiamo le bici su di un taxi jeep. Saluti abbracci e via, si parte per 300km di pesante sterrato, 7h di fila d'auto! Paesaggi inediti si susseguono in continuazione, sono esterrefatto. Scatto foto a raffica, mi si stringe il cuore a non poter pedalare in quest'angolo di paradiso. C'è un grossa differenza tra passarci in auto o in bici. Per intenderci è come vedere un film o essere in un film, è una profonda differenza. Ma poi penso che poteva andarmi peggio, dalla caduta ci sarei potuto rimanere secco o gravemente invalidato. Sospiro: va bene così, sarà per un'altra volta, forse al ritorno!
Da dopo il passo stiamo percorrendo una vallata infinita di cui noi vedremo solo una parte, ma che è lunga più di 600km. Di fronte a noi c'è l'Afghanistan, a separarci ci sono 50mt e un fiume che scorre in mezzo. Per le restanti 6h di viaggio l'Afghanistan ci farà compagnia sul nostro lato destro, è vicinissima, sembra poterla toccare con le mani. Su quella sponda le donne indossano il burka, qua sono invece libere di mostrare il loro volto. Un labile confine, ragionamenti contorti dicono che qui si fa in un modo e qualche metro più là in un altro. Ad esempio, quella mucca che pascola laggiù, sarà tagika o afghana? E soprattutto lei cosa ne penserà a riguardo? Concetti e sovrastrutture mentali di divisione, separazione che solo una mente umana può arrivare a partorire e comprendere. Visto da qui, con i suoi sublimi villaggetti in terra, gli asinelli e la gente che corre in moto, il Paese, famoso agli occhi di tutto il mondo per il “terrorismo”, non fa paura proprio a nessuno, anzi mi viene voglia di andarlo a visitare. Non c'è niente da temere, solo qualche esplosione ogni tanto e una manciata di pietre che arriva sulla carreggiata: Bam, bam, booom! L'auto si ferma per lo spavento! No, non sono i talebani che ci stanno attaccando, sono gli operai afghani intenti a costruire la nuova strada :) Arriviamo in tarda serata a Khorog. Andiamo subito in ospedale, sappiamo che di turno c'è un bravo traumatologo che parla inglese. Mi tasta, mi prescrive subito una radiografia. Pago 29 somoni (l'equivalente di 4 euro), bip,bip, due minuti ed ho in mano una chiara e dettagliata radiografia. Dr. Sheramon la guarda: “sei fortunato! La spalla è solo lussata, non hai bisogno di alcuna operazione, ma per 20 giorni non la devi muovere: devi tenerla ferma e immobile!” Marco 20 giorni senza muoversi? Dura! Guardiamo positivo, abbiamo tanto tempo per scrivere, leggere…ecco appunto, apro un libro a caso: “L’ultimo faro, il viaggio immobile” di Paolo Rumiz..che buffo, il titolo non poteva calzare meglio. Tiphaine Ma tu guarda, sono in tenda e sto per svegliarmi, che bella dormita profonda... « Tiph, ho fatto un sogno strano, sognavo di cadere »....ma chi è che mi sta svegliando?!?...Paul e Tiph sono venuti in mio soccorso, mi hanno girato ed io ho appena aperto gli occhi : « ciao ragazzi, ma che succede ? » In breve realizzo che non si tratta di un sogno, tutto è estremamente reale : sono a terra sui massi ! « Ho attivato l'SOS dello Spot » mi dice Tiphaine. « Cosa ?? ma sei impazzita ? Annulalo subito, adesso mi alzo e tutto come prima », ma non mi rendo assolutamente conto della situazione. Mi manca la prospettiva esterna. Ho una grossa e profonda ferita in testa che sanguina a profusione e a cui non basta mettere un cerotto, inoltre ho tutto il lato sinistro che non posso muovere e la notte è imminente! Leiset, prontamente, è andata a cercare un'auto. Tiph parla a Paul in francese e lui mantenendo la calma chiede puntualmente di ripete in inglese. Non ricorda più dove sono le cose, è in palla totale, non regge la vista del sangue. Ho iniziato a tremare, ma nonostante mi senta come un pilota all'interno di un veicolo in avaria, la mia mente è lucida e dirigo le operazioni da terra : « Tiph prendi la coperta di sopravvivenza, sta nella tua sacca avanti a sinistra! E poi quelle garze per le ferite profonde che ci ha mostrato tuo padre ». Con le forbici alla mano si fanno spazio tra i miei capelli per poterci appiccicare qualcosa di momentaneo che arresti lo scorrere del sangue. « hey ragazzi, mi raccomando non tagliate troppo che ci ho messo tanto per farmeli crescere », sto bene, non ho perso il mio humor ! Tre grossi uomini sono venuti in soccorso, urlano credendo di farsi capire meglio, ma io non sono sordo, è solo che non parlo la loro lingua. Ora non mi rimane che raggiungere l'auto. Vogliono portarmi su un telo : « Alt, alt.. » dico loro, vorrei evitare di cadere per la seconda volta. Provo ad alzarmi lentamente, con la mano funzionante mi aggrappo ad un forte braccio tagiko, uno spinge da dietro, uno mi tiene di lato, arrivo a sdraiarmi in auto. « Paul, Leiset, per favore lasciateci le bici al villaggio, non sappiamo quanto staremo via, torneremo a riprendele appena possibile ». I 18km di strada puntano verso Sagirdasht, un paesino a 2500mt tra le montagne, dovrebbe esserci una struttura ospedaliera a quanto pare. Mi accompagnano in una sala, la strumentazione è davvero rudimentale, per un attimo penso che debbano far bollire l'acqua per sterilizzare gli aghi. Un secondo prima di poggiare la testa sul lettino intravedo del materiale medico confezionato..chiudo gli occhi che sono un tantino più tranquillo. Tre bei punti, una fascia in testa per tenere la garza e ho tutta l'aria di un ferito di guerra di un'altra epoca. Ora servirebbe una radiografia per capire cosa ho alla spalla. L'apparecchiatura è datata e al terzo tentativo l'immagine non è nitida, ma i medici osservandomi e tastandomi mi dicono che non è nulla di grave, forse una micro frattura. Una stanza tutta per noi ci aspetta. Delle brande di ferro senza rete saranno i nostri letti. Il mio corpo è stremato : sprofondo in un gran sonno. Mi sveglio al mattino frastornato, non ci posso credere che mi sia accaduta una cosa del genere, non me ne capacito. Nulla accade per caso, cosa vorrà dire questa caduta ? Era forse arrivato il momento di fermarsi ? Di riportare l'attenzione su me stesso ? Appena posso devo contattare il mio ex maestro di Ohashiatsu. Abbiamo deviato per il Kazakistan e saltato l'Iran pur di arrivare sulla Pamir in tempo prima dell'inverno. C'è l'avevo nella testa ancora prima di partire ed ora il mio stato d'animo è stravolto dalla realtà dei fatti. Ma c'è solo una cosa che io possa fare, rilassarmi e accettare la situazione per com'è! Akbar è il chirurgo, ha 28 anni e indossa sempre un berretto blu pure quando opera. È il più sveglio di tutti e nonostante non parli una parola d'inglese trova sempre il modo per farsi capire. Oggi ha deciso di farmi un'ora di lezione di tagiko/russo. Punta un'oggetto nella stanza e me lo dice nella sua lingua e poi in russo, io prendo nota e riferisco lo stesso nome in inglese. Il giochino è simpatico per un po', ma ad un certo punto mi preme forte sulla spalla dove mi fa male. Lancio un forte grido e lo guardo chiedendomi se sia impazzito o meno. Non ho il tempo di reagire che con un sorriso a 32 denti mi dice: “ecco, questo significa: dolore-dard”...mi viene quasi istintivamente di dargli un ceffone e dire: “ecco questo significa: schiaffo”, ma la scena è così buffa che inizio a ridere anche io cosciente del fatto che, proprio per il suo metodo poco ortodosso, non scorderò mai più questa parola: dard! Qui i dottori hanno tutti un secondo lavoro. Basta osservare le grosse e tozze mani da contadini/muratori che alcuni di loro si ritrovano. Anche Akbar un pomeriggio torna che in faccia è tutto sporco di pittura bianca. Abbiamo una stanzetta tutta per noi, ma medici, infermieri e altri sconosciuti non smettono mai di entrare in continuazione senza mai bussare. Siamo i primi turisti che capitano da queste parti e l'attenzione e curiosità su di noi e la nostra tecnologia è forte. “Uh questo che cos'è? Un telefono?” ci chiedono, “no è una batteria”, “eh questo?” “Il carica batterie”...”ohhh...” rispondono. Come dei bambini portati in un grande negozio di caramelle, toccano, saggiano e domandano con gli occhioni pieni di meraviglia. Ogni tanto la porta si spalanca e il personale di turno ci mostra all'amico di passaggio come si farebbe allo zoo davanti ad una gabbia: “ecco, qui c'è il leone, fate una foto!”...in fondo siamo delle strane creature per loro! Da quando Akbar ha iniziato ad insegnarmi il tagiko i vari assistenti, fieri, lo emulano. “ecco questa è una penna, questo si dice letto...”. Per frenare un po' la grande onda di entusiasmo che si sta trasformando in una fissa che si ripete ogni 5min, pretendo che mi dicano lo stesso termine anche in italiano. E perchè non infilarci pure un po' di napoletano? Ci siamo! Ormai l'hanno imparato! Mi trovo in un paesino sperduto tra le montagne tagike a 2500mt ed ora entrano dicendo a gran voce: “Ciao fra' ”. Mi sento a casa!! :P
Marco Al posto di controllo, dove ci siamo dati appuntamento, le guardie hanno detto loro che due ciclisti erano passati lì un'ora fa e così Leonie e Philipp, che erano rimasti a Dushanbe mentre noi eravamo al centro agro-ecologico di Jafr, pensando che fossimo noi, si stavano affannado per raggiungerci. Arriviamo all'incrocio giusto in tempo che vedo delle bici in lontanza. Il forte suono della mia nuova trombetta uzbeka li raggiunge rapidamente. Si girano, ci vedono, si fermano. Sono in compagnia di altri cicloturisti. Gli americani, che avevamo già conosciuto a Bukhara e degli australiani...ahh ma siiii, ci conosciamo, ci siamo incrociati in Turchia 4 mesi fa, ci eravamo salutati con un « chissà forse ci vedremo sulla Pamir » e il destino vuole che ci incontriamo proprio qui, alle sue porte. 16 ruote, 8 cicloturisti, 5 nazionalità, 4 coppie : siamo una carovana ! La strada è sterrata e porta il colore rosso delle alte montagne nella quale è tagliata, pedaliamo in una profonda gola, che paesaggi ! Dopo qualche km sono già saltate le prime viti e a qualcuno si è spaccato il parafango. Ognuno ha però qualcosa per aggiustare il guasto altrui. Kyla e Didier, gli americani, hanno un anno a disposizione, hanno programmato visti, il prossimo volo per l'India e al rientro hanno un lavoro che li aspetta. Viaggiano leggerissimi ma non rinunciano alle sedie da campeggio pieghevoli. Partiti cinque mesi e mezzo fa dal Portogallo sono già qui ! Leonie e Philipp, i tedeschi, hanno un bagaglio che riflette la loro indole organizzatrice : ogni cosa a suo posto, un posto per ogni cosa. Le bici e le sacche sono ordinate in maniera impeccabile. Infine, Paul e Leiset, gli australiani, portano con sè la loro lunga esperienza di viaggio di un anno e mezzo in Sud America. Scopriremo più tardi che sono in luna di miele e che quando eravamo in Spagna e Portogallo viaggiavamo ad un mese di distanza tra i vari warmshower. Sono quelli che tra tutti sembrano più viaggiatori che cicloturisti.
A destra un bel pratino verde a strapiombo sul fiume, che scorre veloce 30mt più giù, è abbastanza grande e piatto per accogliere 4 tende, anzi 5 si è appena aggiunta un'altra coppia di tedeschi. Affollata 'sta Pamir ! D'altronde questa è una delle poche strade da cui si passa per andare verso il sud est asiatico. C'è chi per prima piazza la tenda, chi subito le sedioline, chi invece si fa da mangiare, io stendo il telo a terra e metto in pratica gli insegnamenti freschi freschi di yoga dei genitori di Tiph. Il buio cala che sono appena le 19:15, su di noi splende la via lattea. E vai con le foto in notturna! Prima di andare a nanna ne voglio fare una di gruppo. Come un direttore d'orchestra dirigo le luci che comporrano la foto : « ora !!! » e ognuno illumina dall'interno la propria tenda con la frontale, « ehh....stooop !! » le luci si spengono. Tempo che la macchina elabori la foto e l'immagine è pronta. « Hobi Kush » sogni d'oro in tagiko. Avviso di Tiphaine: chi è di animo sensibile può passare direttamente al paragrafo sucessivo. « Sei riuscita stamattina ? », « Si ne ho fatta una.... », « Oh beata te, io ancora niente..». Ormai a distanza di un anno e tre mesi di viaggio parliamo delle nostre cacche con tutta naturalezza. Come un trofeo di caccia discutiamo fieri e contenti di taglia, colore e modalità (soprattutto da quando Kazakistan e Uzbekistan hanno messo a dura prova i nostri intestini). Il gruppo si disfa presto, ognuno ha la sua andatura e le sue esigenze, noi pedaliamo per qualche giorno assieme agli autraliani con i quali abbiamo in comune lo stesso ritmo lento. Entrambi non ci stressiamo su quanti chilometri fare al dì. A fine di una lunga giornata in cui avremmo pedalato quasi 1000mt di dislivello la mente e corpo sono stanchi. 7-8 metri più in basso c'è un bel posto per passare la notte accanto al fiume. In fondo alla curva la strada ha lo stesso livello dello scorrere dell'acqua, passeremo di là. Paul, va in avanscoperta, poi Leiset e Tiphaine seguono, io aspetto che intanto mi riposo. Mentre sto per avviarmi, da lontano i ragazzi mi fanno segno che hanno visto una strada più semplice per raggiungere l'accampamento. Paul e Leiset risalgono dal sentiero e mi aiutano prendendomi i bagagli della bici. Sto per scendere, ma commetto un grave errore di valutazione, la stradina è troppo stretta per accogliere me e la bici conteporaneamente. Il casco (mannaggia a me) già ciondola sulla bici quando i piedi scivolano vertiginosamente verso il basso. Mollo la bicicletta e provo ad afferrare degli arbusti con le mani, sembrano quasi arrestare la mia discesa, ma non per molto. Il mio corpo è proiettato all'indietro, non c'è nulla che io possa fare, provo a girarmi e trovare un appoggio con i piedi, ma sotto di me la terra lascia 5 mt di vuoto. Sono in caduta libera. Con la coda dell'occhio vedo che sono delle rocce quelle laggiù ! Per la testa mi attraversa un'unico pensiero « Oh cazzooo !! » ..............buio.............................................................................................................................................................................................................................................................................................................. Marco |
AutoriMarco + Tiphaine: cicloviaggiatori alla scoperta del Mondo e di realtà ecosostenibili VideoNEWS-LETTERSEGUICI SUSCRIVICIT-ShirtFOTOCategories
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May 2019
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